Campi d'internamento negli USA: 120.000 giapponesi deportati nella Seconda guerra mondiale
Tutti noi conosciamo l'orrore dei campi di sterminio in Europa ma il ricorso al forzato trasferimento di migliaia di persone al fine dell'internamento è una procedura a cui sono storicamente ricorsi numerosi paesi, anche i più insospettabili.
Più o meno negli stessi anni in cui in Polonia e Germania venivano costruiti i campi di concentramento per ebrei, ad esempio, anche nei democratici Stati Uniti accadeva qualcosa di simile. Niente a che vedere con camere a gas e torture, ma comunque una violazione dei diritti di circa 120.000 persone che dovettero attendere più di quarant'anni per ricevere delle scuse ufficiali.
via history.com
Il 19 febbraio 1942, due mesi dopo l'attacco dei giapponesi a Pearl Harbour, il presidente americano Roosvelt firmò l'Ordine Esecutivo 9066 col quale autorizzava il trasferimento in campi di internamento di tutte le persone di discendenza giapponese residenti negli USA.
Lo shock per l'attacco subito al porto militare hawaiano e i successi che la marina giapponese stava ottenendo durante la Seconda guerra mondiale bastò a convincere le alte sfere che la massiccia presenza di persone di discendenza giapponese residenti nella costa del Pacifico statunitense rappresentasse un serio pericolo per la sicurezza nazionale.
Dei circa 127.000 giapponesi di prima, seconda e terza generazione presenti nel paese all'epoca, 2/3 era di cittadinanza americana. L'ordine di evacuazione interessò tutti loro, senza eccezioni.
Prima del trasferimento forzato in uno dei dieci campi costruiti appositamente, la maggior parte di loro venne costretta a svendere le proprietà.
All'interno dei campi la vita non era semplice. Le condizioni di vita al loro interno, in generale, dipendevano principalmente dal tipo di ente governativo che gestiva ciascun campo. Quelli gestiti dalla War Relocation Authority erano quelli in cui si stava peggio: gli internati alloggiavano in caserme in cui non c'erano alcun impianto di fognatura, le strutture abitative erano sovraffollate e non c'era nessuna attrezzatura per cucinare. Soldati stavano a guardia degli ingressi dei campi che, però, erano stati costruiti in zone sostanzialmente desertiche o comunque lontane chilometri dai centri urbani. Proprio a seconda della collocazione geografica, nei campi si potevano verificare tempeste di sabbia o essere soggetti all'umidità delle paludi, ad esempio dell'Arkansas: nel primo caso nei campi si registravano episodi di asma e coccidiomicosi, nel secondo si veniva esposti alla malaria.
Test di "americanità".
Tutti gli adulti all'interno dei campi erano tenuti a compilare dei questionari mirati a testare la fedeltà e la "americanità" degli internati. Coloro che non raggiungevano un livello di affidabilità adeguato venivano trasferiti nel campo di massima sicurezza di Tule Lake.
Le scuse del governo.
L'ultimo campo di internamento di giapponesi in suolo americano venne chiuso nel marzo del 1946. Due anni dopo si provvedette a rimborsare coloro che avevano perso grosse somme di denaro nell'atto (forzato) di vendere i propri beni.
In seguito fu chiaro che dietro alle pressioni per la messa in atto di questa deportazione di massa c'erano principalmente motivi di razzismo, che non giustificavano nessun presunto pericolo per il paese, e l'interesse dei coltivatori della costa ovest nell'eliminare la concorrenza dei giapponesi.
Nel 1988 il presidente Reagan firmò l'atto che prevedeva un indennizzo di ventimila dollari per ciascuna persona coinvolta nei fatti di quarant'anni prima (Civil Liberties Act).