Nella Roma occupata dai nazisti un gruppo di medici diagnosticava false tubercolosi per salvare vite

di Giulia Bertoni

03 Marzo 2017

Nella Roma occupata dai nazisti un gruppo di medici diagnosticava false tubercolosi per salvare vite

Nel periodo delle deportazioni ai danni degli ebrei e di altre minoranze etniche furono molte le persone che misero le proprie conoscenze professionali e personali al servizio di una clandestina opera di salvataggio.
Come il funzionario di borsa che salvò 669 bambini dalla Cecoslovacchia occupata, o il ciclista che usava i suoi permessi speciali per trasportare documenti falsificati, molti di loro agirono senza mai cercare la gloria, addirittura senza mai rivelare ad altri quello che avevano fatto.
In ogni paese dell'Europa c'è almeno una storia di questo tipo da raccontare e oggi vogliamo raccontarvi quella di alcuni medici italiani che aiutarono tanti fuggiaschi a scampare alle retate dei nazisti nell'anno 1943.

via db.yadvashem.org

I medici del Fatebenefratelli di Roma.

I medici del Fatebenefratelli di Roma.

Wikimedia

All'epoca in cui le deportazioni naziste arrivarono a interessare anche la città di Roma, l'Ospedale San Giovanni Calibita dell'Ordine dei Fatebenefratelli non solo era una delle istituzioni mediche più rinomate ed efficienti, ma era anche una delle zone extraterritoriali della Santa Sede, sottoposto quindi alle regole del diritto internazionale. Fu qui che un gruppo di medici si adoperò per aiutare, e in qualche caso salvare da morte certa, molti di quelli che cercavano di fuggire dalla città come ebrei, partigiani, antifascisti e fascisti disertori.
Fra di loro c'erano il professor Giovanni Borromeo (foto), lo studente Vittorio Emanuele Sacerdoti (che lavorava sotto falso nome) e il medico volontario Adriano Ossicini.
Dopo la presa del potere dei tedeschi a Roma, avvenuta l'8 settembre 1943, questi uomini iniziarono ad ammettere in ospedale persone che non necessitavano di cure ma di una via di fuga. Il 16 ottobre di quell'anno, in particolare, Sacerdoti, con il consenso di Borromeo, diagnosticò a 27 persone il morbo di Koch, una malattia infettiva che provoca la tubercolosi.

db.yadvashem.org/isolatiberina.it

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In un'intervista rilasciata solo nel 1998 da Sacerdoti alla Shoah Foundation, l'uomo rivelò infatti che usavano parlare di 'morbo di K' per indicare tutti quei ricoverati che erano in realtà dei fuggitivi, facendo così anche riferimento al generale tedesco Albert Kesselring, e che si trattò di un piano attuato anche per non ebrei. Quando i tedeschi facevano dei controlli all'interno dell'ospedale, queste persone venivano incoraggiate a tossire e, convinti che si trattasse di tubercolosi, i soldati si tenevano alla larga.
Oltre all'idea di Sacerdoti, il medico Borromeo aveva già aiutato a fuggire cinque membri della famiglia Almagià e aiutò il movimento della Resistenza installando negli scantinati dell'ospedale una radio ricetrasmittente con la quale mettere in contatto i partigiani attivi nel Lazio con il generale di brigata aerea Roberto Lordi, in seguito martire delle Fosse Ardeatine e Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.
Negli anni successivi la storia del morbo di K venne enfatizzata molto e i dati sul numero di persone effettivamente aiutate vennero gonfiati, tuttavia crediamo che l'operato di queste persone non debba essere sminuito dalla discrezione con la quale, per ovvi motivi, esse si mossero.