I 7 "peccati" del mercato della carne di cui non si parla
Sono molti gli esperti che ribadiscono di tanto in tanto la necessità di diventare vegetariani e che prospettano un futuro senza più possibilità di allevare animali destinati al macello: in ballo non ci sono solo questioni etiche e morali del rispetto della vita e il fatto di essere profondamente contrari alle tecniche di allevamento ed uccisione delle strutture intensive. Alla base sembra esserci, invece, l'oggettiva impossibilità di soddisfare la crescente richiesta di carne e la questione inquinamento che gli allevamenti intensivi riversano nell'ambiente.
Ecco 7 verità interessanti sul mercato della carne che troppo poco spesso vengono portate alla luce.
via La Vanguardia
U.S. Department of Agriculture Segui/Flickr
- Impatti ambientali. Gli allevamenti intensivi sono responsabili delle emissioni nell'atmosfera dei gas serra per il 18% e sono considerati essere i principali autori dell'inquinamento idrico: è stato stimato che un chilogrammo di carne richiede un quantitativo di acqua superiore di 15 volte rispetto ad un chilogrammo di cereali. La necessità di allevare il bestiame ha causato anche il disboscamento di vaste aree forestali, al fine di far spazio alle strutture di allevamento, che per una questione di sussidi devono risultare sempre più ampie.
- Inquinamento da nitrati. Uno studio condotto nelle aree agricole spagnole ha rilevato che il 37% delle fonti naturali risulta essere inquinato da nitrati, a causa del riversamento di poltiglie di scarico appartenenti ad allevamenti intensivi, che possono raggiungere le falde acquifere e le sorgenti determinando un serio rischio per la salute umana.
- Sussidi europei inconsapevoli. L'Europa da molto tempo segue una politica agricola che favorisce i grandi allevatori rispetto alle piccole aziende, spingendo i primi verso pratiche agricole intensive che danneggiano l'ambiente, non rispettano la dignità degli animali e creano disoccupazione. Da anni si parla di revisionare le norme europee con l'obiettivo di renderle più eco-compatibili e di aiuto per i piccoli allevatori, ma di fatto ancora non c'è stato un sostanziale cambiamento. Ad oggi, i sussidi europei incoraggiano le grandi aziende a produrre quanto più possibile, impiegando un numero minimo di persone.
- Il parere dell'OMS: nel 2015 l'Oragnizzazione Mondiale della Sanità rilasciò un report che poneva l'attenzione sulla correlazione tra forme tumorali e consumo di carne rossa, insaccata o trattata. I dati che emergevano dallo studio erano allarmanti: per ogni 50 grammi di carne lavorata consumata al giorno, il rischio di cancro al colon-retto aumentava del 18%. L'eccessivo quantitativo di proteine animali che vengono assunte dai paesi sviluppati è alla base di molte malattie tipiche dei paesi occidentali: problemi cardiovascolari, diabete e obesità. La FAO limita il consumo di proteine animali a 58 grammi al giorno, ma in Occidente la media è di 102 grammi.
- Le condizioni negli allevamenti: negli ultimi anni il numero di aziende agricole è diminuito, mentre è aumentato il numero di animali allevati. Questo significa che la concentrazione nei singoli allevamenti è aumentata, arrivando ad un sovraffollamento insostenibile.
- Rischio di epidemie alimentari. Le condizioni di ingrasso e di reclusione a cui sono sottoposti gli animali sono una minaccia per la salute degli animali stessi. Le misure di miglioramento sono ancora lontane dal rivelarsi efficaci per le condizioni di esistenza dei capi destinati al macello. Queste condizioni costituiscono anche un substrato fertile per lo sviluppo di malattie epidemiche, come la mucca pazza di qualche anno fa, i casi di contaminazione del batterio E. coli e l'influenza aviaria. Non è da dimenticare inoltre la pratica di somministrazione di antibiotici, che è in qualche modo collegata alla resistenza antibiotica che sempre più persone stanno sperimentando. Tutte queste considerazioni rendono chiara la necessità di rivedere il modello di produzione della carne.
- Giustizia alimentare. Le fattorie di tutto il mondo importano spesso cibi transgenici provenienti da luoghi molto distanti. Ecco un altro motivo per cui gli allevamenti intensivi risultano essere, ad oggi, davvero poco eco-compatibili. C'è da considerare anche il fatto che nei paesi di origine i mangimi possono essere trattati con pesticidi e prodotti chimici vietati nel paese di destinazione, come accade per la soia transgenica coltivata nel Sud America.
La vera rivoluzione forse non deve partire unilateralmente dalle organizzazioni mondiali, dall'Europa o solo dai cittadini: senza dubbio tutte le parti devono camminare verso un unico obiettivo, ma l'importanza che ricopre il ruolo del consumatore non deve essere dimenticata. Quest'ultimo ha il potere di decidere cosa portare in tavola, se un prodotto animale originario di un allevamento intensivo, o di un piccolo allevatore, se di un paese lontano, o a chilometro zero.