Diventa la “donna più brutta del mondo” per aiutare la sua famiglia: la storia di Mary Ann Webster
Johannes Buckler/Twitter
Cosa faresti pur di aiutare la tua famiglia in un momento di difficoltà? Quella che per molti sarebbe una domanda retorica, per Mary Ann Webster è stato un dubbio estremamente concreto all’inizio del Novecento.
Tuttavia, oggi la sensibilità su temi come l'aspetto fisico e la disabilità è diversa, e con la storia di Lizzie Velasquez vediamo come l'essere etichettata come "la donna più brutta del mondo" rappresenta un'occasione per trasmettere un messaggio che va oltre la mera apparenza.
La storia di Mary Ann Webster, la “donna più brutta del mondo”
Johannes Buckler/Twitter
Mary Ann Webster nasce a Londra il 20 dicembre 1874, in una famiglia povera e numerosa. Come molte giovani dell’epoca, comincia presto a lavorare e diventa infermiera, così da sostenere la sua famiglia.
A 29 anni, nel 1903, Mary Ann sposa Thomas Bevan, con il quale ha quattro figli, un traguardo abbastanza ordinario per una persona dell’epoca.
Tuttavia, dopo la nascita dell’ultimo figlio, la salute di Mary Ann inizia a peggiorare, e la donna nota alcuni cambiamenti al suo corpo.
I tratti del volto mutano in modo drastico fino a renderla irriconoscibile, la “donna più brutta del mondo” diranno in seguito.
La diagnosi parla chiaro: Mary Ann è affetta da acromegalia, una malattia rarissima causata da una produzione eccessiva di ormone della crescita.
Ma è solo l’inizio delle sue sventure.
Far parte dei freak show per aiutare la propria famiglia
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Dopo poco tempo dalla diagnosi, Mary Ann perde il lavoro a causa del suo aspetto, e anche il marito che scompare nel 1914.
La donna si trova quindi a dover trovare una risposta alla domanda che abbiamo menzionato nell’introduzione: cosa faresti pur di aiutare la tua famiglia in un momento di difficoltà?
Mary Ann Webster decide di rispondere: tutto, anche l’impensabile. D’altronde, lo abbiamo detto, la sensibilità di fine Ottocento e inizio Novecento è molto diversa.
Un giorno la donna vede l’annuncio di un concorso per la “donna più brutta del mondo”: il premio per la vincita farebbe una enorme differenza nella sua vita, e decide di partecipare.
Mary Ann vince e prende una decisione ancora più drastica: far parte dei freak show, gli spettacoli con i cosiddetti “fenomeni da baraccone”, per aiutare la propria famiglia.
La sua carriera la porta ad esibirsi nel Regno Unito e anche negli Stati Uniti, tanto da riuscire a mantenere i suoi figli nonostante tutto.
Ma la donna tiene sempre a mente il suo obiettivo principale, anche di fronte all’interessamento della comunità scientifica. Quando il famoso neurochirurgo Harvey Cushing si interessa al suo caso, Mary Ann diventa sua paziente ma rifiuta qualsiasi intervento chirurgico.
E possiamo anche comprendere il perché.
Essere la donna più brutta del mondo nel mondo di oggi
La storia di Mary Ann Webster racconta un periodo storico diverso dal nostro, in cui una donna affetta da acromegalia diventa un fenomeno da baraccone per aiutare la propria famiglia.
Oggi c’è una sensibilità molto diversa, come vediamo grazie alla storia di Lizzie Velasquez. Giovane donna con una rara patologia genetica che impedisce al corpo di accumulare grassi, Lizzie è stata etichettata da molti come la “donna più brutta del mondo”, soprattutto online.
La donna tuttavia non si è lasciata abbattere dai commenti e, al contrario, ha trasformato la sua esperienza di vita in stimolo per andare avanti.
Oggi Lizzie è infatti una scrittrice e attivista, con l'obiettivo è sensibilizzare le persone sulla sua condizione e normalizzare la diversità fisica.
E il messaggio è chiaro: non è l’aspetto fisico a definire il valore di una persona, ma ciò che facciamo con la nostra vita.
In fondo, le storie di Mary Ann Webster e di Lizzie Velasquez sono molto simili da questo punto di vista. Entrambe le donne si sono trovate a convivere con una condizione rara e un forte stigma sociale.
A cambiare è la sensibilità, che oggi può permetterci di capire che essere la “donna più brutta del mondo” non vuol dire essere fuori dalla società.
Ma rappresentarne lo specchio.